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Lettera a un amico
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Non sapevo se pubblicare o meno l’articolo. La ragione di tale incertezza è la più triste: questo caro amico è venuto a mancare poco prima che lo ultimassi. Tra indecisioni e fin troppi dubbi mi sono infine convinto di proporlo per la pubblicazione oggi, a distanza di un mese. Mi piace credere, forse illudermi, che possa essere o diventare come uno “specchio a due vie” su un uomo che non in molti sono riusciti davvero a conoscere.
Malgrado la circostanza non sono riuscito a modificarlo. Ogni parola infatti indugia ancora nella stessa illusione di qualche settimana fa, quando tutto era “normale”.
Dunque… questo era, è, e per sempre sarà il mio ricordo di Roberto Cavalli.
Permettetemi una breve apologia…
L’amicizia è un dono impalpabile come il tempo; a volte effimera, altre – invece, più concreta di quanto lo sia il lato etereo di un sogno. L’amicizia è un velo che offusca dolore, paura, tristezza… tutte quelle emozioni che ci costringono sospesi tra il baratro e l’abisso. Può sembrare retorica, ma si comprende il significato dell’amicizia solamente quando ci si rivela con incerto stupore. Io ho avuto una grande fortuna nella vita: incontrare quell’amico.
È comunque vero che la fortuna cela tra le pieghe del tempo un minimo (ma non trascurabile) accenno di contrarietà, un modo per serbare intatta la sua egemonia. È come se ogni dono che di tanto in tanto, non senza riluttanza, concede, debba per forza essere aggiogato al suo mutevole istinto. Forse il giusto artificio affinché tutti noi, da sempre facili all’assuefazione, riusciamo a comprendere quanto è importante il dono che ci ha fatto.
Ho conosciuto Roberto Cavalli, uno tra gli stilisti più famosi al mondo, non pochi anni fa, durante la MFW dedicata all’uomo. La simpatia è stata immediata e mutua, per mia grande fortuna e stupore. Come designer mi piaceva da sempre, tanto che desideravo conoscerlo prima ancora di riuscire a comprenderne i meriti. Un pomeriggio di metà gennaio, al termine della sfilata uomo, mi sono avvicinato a lui come un ragazzino qualunque: timido, indeciso, di poche parole e senza alcuna possibilità che mi dedicasse il tempo di un saluto. Invece non fu così! Sospeso tra l’euforia del momento e l’agitazione di qualche intervista televisiva, senza dimenticare che accanto a lui c’era anche Ronnie Wood (dei Rolling Stones), ha guardato nella mia direzione e… così, senza alcun preavviso mi si è avvicinato chiedendomi se volessi diventare modello.
Da quello stesso momento mi ha fatto dono non soltanto della sua amicizia ma, anche, di tutto il suo mondo. Un universo che attingeva a colori e stampe meravigliose, un luogo magico e poetico, lo stesso in cui viveva e sognava giorno dopo giorno. Io mi sono lasciato avvolgere da quel mondo, portare in una realtà parallela come fosse un sogno in piena veglia. Tante volte ci siamo incontrati nella sua adorata Firenze come a Milano, prima o dopo le sfilate come nei suoi uffici.
Per molti Roberto Cavalli è l’immagine (forse l’olotipo) di uno stilista un po’ distaccato ed eccentrico, che ha fatto dell’animalier il leitmotiv di quello che oggi si considera il suo retaggio creativo. Indubbiamente lo è, e per questo i vestiti che celebrano la sua enfasi artistica riscuotono ancora tanto successo, tuttavia questo è solo il piccolo tassello di un mosaico infinito come il tempo, o l’arte.
Molte volte gli ho detto che in lui coesistevano due persone: Cavalli, l’artista visionario e geniale come pochi; quello che ci si limitava ad adorare dalla certa distanza di un sospiro. Un facile espediente per non infrangere la bellezza che infondeva ai suoi tessuti con una realtà che il più delle volte sembrava troppo sterile e priva della magia necessaria per sognare. Poi c’era Roberto, l’uomo, una persona che definirla meravigliosa attenua sia il sentimento che la verità. Io ho avuto il privilegio di conoscere sia Roberto che Cavalli, un binomio per molti inscindibile, e devo dire che entrambi hanno un posto speciale nel mio cuore.
Cavalli lo conoscete, per questo vorrei parlare di Roberto. Un uomo generoso, amorevole, gentile… è quella persona che tutti noi vorremo come amico, ma non perché è un genio della moda o conosce mezzo star-system hollywoodiano; è tutto più semplice: lui è quell’amico su cui puoi sempre contare. Mi ricordo quando, ancora all’inizio, gli avevo detto che era un genio e lui, con tutta l’accortezza del caso, mi aveva ricordato che i geni non esistono, che non lo era e soprattutto non si sentiva tale. Faceva ciò che amava nel modo migliore che gli era possibile. E vi posso assicurare che non era falsa modestia.
Roberto è quella persona che se vi incontra per strada vi abbraccia senza nemmeno pensarci. Roberto è quella persona che agisce con il cuore e solo dopo ci riflette su. Il primo giorno, senza nemmeno domandarsi perché mi fossi avvicinato a lui, mi ha dato il numero di telefono per restare in contatto. In un’altra occasione, mi ha inviato la bozza completa della sua biografia. In questi anni mi ha donato il suo mondo e, nonostante la differenza di età apparentemente insormontabile a dividerci, mi ha subito considerato come un grande amico. Perché è vero che l’amicizia non conosce la distanza del tempo.
Oggi Roberto Cavalli è padre di un bimbo di appena un anno… Giorgio, come il suo babbo. Ho letto pareri favorevoli e contrari, come sempre, mi sembra logico e giusto, eppure non posso fare a meno di pensare che in pochi lo conoscono davvero, altrimenti saprebbero che il piccolo Giorgio è uno dei bambini più fortunati del mondo, e non perché ha un padre “ricco e famoso”, ma perché ha tutto il suo amore che è, e dovete credermi, inesauribile come la sua fantasia. Senza dimenticare che ha accanto a sé ha anche la mamma, Sandra, una ragazza semplicemente eccezionale.
Purtroppo, oggi non ci vediamo più molto spesso: la distanza, i suoi impegni come genitore, la vita… quel “mutevole istinto” a cui alludevo prima. Ahimè resta un capitolo che aleggia nel passato e si conforma nei tanti ricordi di ieri. Inutile dire che mi manca moltissimo, eppure a ogni festività il telefono vibra e leggo un suo messaggio.
È proprio vero che l’amicizia supera ogni distanza.
Ho voluto scrivere queste parole perché sono parte di un riserbo che non ho mai confidato a nessuno. Sono pensieri e nostalgie che vestono il tempo, la vita, me… e tutti noi. Forse è appena un’esortazione a cercare nell’amicizia quel fugace contrappunto che la vita non sempre riesce a donare. Infine, l’ho voluto scrivere per far conoscere una parte di quell’uomo inarrivabile, di quella persona che ho la fortuna di chiamare “amico”.
Ecco, questo era l’articolo, pervaso da una dolce illusione nel sottendere a più ingenue speranze. È disarmante la nostalgia che provo nel rileggerlo, malgrado l’abbia scritto cinque settimane fa. Ora però è giunto il momento di concedere al presente il tributo che gli è d’uopo.
Roberto Cavalli ha varcato la soglia dell’immortalità il 12 aprile.
Dire “addio” è sempre difficile. Dirlo a una persona, a un amico come Roberto, è quasi impossibile, soprattutto se si cerca di mantenere una certa forma nello scrivere. Mi piacerebbe aggiungere tante cose, aneddoti e parole che, purtroppo, sbiadiscono ai tanti ricordi che mi legano a lui. Roberto ha cambiato la vita e il cuore di tutti coloro che gli hanno voluto bene, che hanno avuto la fortuna di conoscerlo e avere la sua amicizia, e lo ha fatto senza chiedere nulla in cambio e senza aspettarsi niente.
Oggi il mondo sembra un luogo più buio e meno colorato, ma rivolgendo gli occhi al cielo e guardando oltre la prima tristezza ravvolta in una solitaria coltre di nubi… ecco: è lì che Roberto vivrà per sempre. Equamente distante e vicino come un fugace pensiero che al cielo vuol redire.
I miei pensieri e le condoglianze più sincere alla sua famiglia e a tutti gli amici che, come me, gli hanno voluto bene. Un abbraccio forte a Sandra e al piccolo Giorgio, con l’augurio che possa crescere felice nonostante l’assenza di babbo Roberto.
Infine una preghiera rivolta a voi tutti che avete letto queste parole: non dimentichiamo chi è stato Roberto Cavalli.
Grazie.
Tre inverni, quattro primavere
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C’è una pagina che ho sempre desiderato scrivere. Un ricordo che vorrei potesse esistere per sempre in quel limbo costruito di byte che, oggi, è divenuto una realtà ben più oggettiva, una vera e propria sfida alla caduca veste che ravvolge il tempo.
Ho avuto la fortuna di conoscere diversi artisti. Se si eccettua la giusta emozione e qualche ricordo più o meno fugace, ciò che mi è rimasto è una foto nel telefono, un aneddoto da raccontare a un amico o, ancora, l’immagine sfocata di un momento che, accordandosi al fluire del tempo, ha perso un po’ di vividezza. Credo sia la normale conseguenza del giorno, infatti segue una comune sembianza di vita. È senza dubbio un fatto e, in quanto tale, è vero che è così, ed è così che è vero, tuttavia c’è una persona che ho avuto la fortuna di conoscere e fin dal primo momento si è subito discostata da tale immagine.
Questa persona si chiamava… anzi, si chiama e si chiamerà per sempre Stefano D’Orazio.
Quanto scrivo non vuole essere l’accorata apologia rivolta a un artista che non c’è più. È importante premettere che Stefano non è diventato un grande uomo nel momento in cui ci ha lasciati. Invero non ne ha mai avuto bisogno perché… è sempre stato grande.
Musicista eccelso, poeta, scrittore e prima di tutto dotato di una voce genuina e carezzevole. Ma non solo: era capace di trascendere quello spazio eccettuativo e privato che separa l’artista dal proprio pubblico.
Io lo vedo ancora e sempre dietro la sua amata batteria bianca, quella con la doppia grancassa che fin da quando ero piccolo sognavo di poter un giorno suonare. Sempre lì, con il sorriso fuggevole e quella luce negli occhi che era più esplicativa di mille parole. Un sorriso che poi mutava nell’emozione ogni volta che cominciava l’attacco di “50 Primavere”. Il momento in cui smetteva di essere artista e diventava figlio.
Questi però sono ricordi comuni, o almeno credo.
Da aspirante scrittore, per me Stefano era ed è tuttora un maestro. Lo so, scrittura e testi musicali sembrano esistere alle antitesi della pagina, però non credo sia così. Per me sono legati da un filo conduttore ben definito. Lo stesso che lega anche le sceneggiature cinematografiche o quelle teatrali. In ogni caso, non posso e non voglio negare che è stata fonte di non poca ispirazione. Per questa e per altre mille e forse più ragioni non appena ho saputo che avrebbe presentato la sua biografia a Treviso, relativamente vicino a dove vivo, ho subito deciso di salire in macchina e andare da lui. Era il 9 maggio del 2013 e io, come un fan qualunque, mi sono messo in viaggio con il desiderio di stringergli la mano.
Vabbè, dai, tralasciamo i dettagli in ragione dei ricordi, anche se saprei raccontare quasi ogni particolare di quel giorno. Con molta titubanza mi sono presentato dietro le quinte. Giuro, non sono passati due minuti che, dopo avermi intravisto tra la porta e il corridoio, mi è venuto incontro con un grande sorriso accogliendomi nel suo regno come si fa con un vecchio amico: abbraccio e pacca sulla spalla. Non credo avesse percepito il mio imbarazzo, in ogni caso era proprio così… unico! Abbiamo parlato, ha chiesto di me e delle mie aspirazioni, poi è stata la volta di qualche aneddoto legato ai concerti e non poche risate. Del resto era impossibile non ridere con lui.
Fin da subito aveva dato a quell’incontro una sfumatura amena. Sapete quell’immagine che avete nel cuore e poi, per qualche strana congiunzione, diviene reale? Ecco… questo è ciò che ho provato quel giorno. Ero molto timido, senza dimenticare la debordante emozione di trovarsi vis-a-vis con un grande artista. È trascendentale, senza dubbio. Posso soltanto dire che ha fatto tutto lui, da solo. Io non ho avuto alcun merito di quella mezz’ora rubata alla cortesia del fato.
Alla fine mi ha ringraziato (lui, tengo precisare) per essere andato a trovarlo e per i complimenti (di certo lapalissiani) che gli avevo fatto. È senza dubbio incredibile, perfino ora che lo sto scrivendo dopo tanti anni mi sembra fin troppo illusivo e prospettico, ma posso giurare che è la verità. Prima di andarmene gli ho lasciato qualche mio scritto, qualcosa come trenta pagine, non poche. Lui ha subito affidato il plico al manager con una precisa raccomandazione: “Domani, in treno, quando torniamo a Roma, devi darmelo che lo voglio leggere.”
Qualche parola ancora, mille ringraziamenti da parte mia, l’immancabile foto, non un selfie perché sono sempre stato restio, un autografo e, infine, ci siamo salutati come due vecchi amici. Lui ha continuato con le prove per la presentazione del libro; io invece ho colto profitto per visitare la città.
Sinceramente non sapevo che cosa aspettarmi da quell’incontro. Per me era stato un sogno e lui una specie di Virgilio in quella realtà onirica in cui mi ero trovato. Ero felice, inutile negarlo, ma non sapevo ancora quanto. Dopo quattro giorni esatti ho ricevuto una telefonata.
“Ciao, sono Stefano… D’Orazio. Ti chiamo perché ho letto quello che mi hai dato e volevo dirti…”
Credetemi che è davvero impossibile descrivere le emozioni che ho vissuto in quel momento. Abbiamo parlato per qualche minuto e lui, generoso come pochi, mi ha donato un grandissimo empito per continuare a scrivere e, non meno, dei preziosi e inattesi consigli. Alfine gli ho chiesto se potessi salvare il suo numero, incredibilmente ha acconsentito, e da lì abbiamo cominciato a sentirci soprattutto tramite SMS durante feste, compleanni e varie occasioni, compreso il matrimonio con Tiziana, che non ho mai avuto il piacere di conoscere. Sempre gentile e affabile, non ha mai fatto passare nemmeno un giorno prima di rispondermi. Ecco, così era Stefano D’Orazio… un uomo dal cuore immenso.
Sono trascorsi tre inverni e quattro primavere e ancora non riusciamo a capacitarci della sua assenza. Soffriamo tutti la mancanza non soltanto di un grande artista, ma di un uomo come pochi. Se poi si considera il successo e il nome che aveva, a mio avviso, lo rende davvero più unico che raro. Una vera e propria eccezione. Un uomo irripetibile.
Stefano era una persona meravigliosa. Vorrei trovare mille altre parole o sinonimi per ripeterlo ancora e ancora, ma la verità è che sarebbero appena semplici attenuazioni. Ho sempre pensato che il merito più grande sia lasciare qualcuno senza parole. Così, privo di argomenti a supportare le emozioni del cuore. Lo so, è un paradosso soprattutto per uno come me, che scrive e descrive finanche il superfluo. Eppure Stefano è l’immagine di questa singolarità. Infatti, non esistono parole per descriverlo. Era capace di trascendere il significato del tutto perché lui e lui soltanto ne statuiva il confronto.
Nessuno come lui, nessuno più di lui.
Quel giorno, per bontà sua, ho potuto conoscere Stefano. Con il suo modo di fare, la gentilezza e la simpatia che gli era ingenita ha trovato “un posto nel mio cuore”, come in quello di tantissime altre persone, e lì esisterà sempre per sempre e ancora, con tutti noi.
Pagni, Hendrix & Gibboni
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In più circostanze di quante si possa credere bastano due semplici parole per destare una sequela di emozioni che debordano nell’infinito. Molto probabilmente “ti amo” sono le prime che sovvengono, quantomeno ai romantici, ma… in questo caso mi piacerebbe trascendere per un momento appena le eufoniche sembianze con cui l’amore si veste in ragione di quelle più universali e proprio per questo non subordinate ai mutevoli capricci del cuore.
Preambolo a parte, sveliamo il mistero…
– Jam session –
Due semplici parole che circoscrivono i contorni sfumati di un sogno. Una locuzione di uso comune capace però di esornare quella che è la sua più grande virtù: avere lo stesso significato ovunque nel mondo, senza alcuna distinzione per quanto concerne la storia, la cultura o la lingua. Non è un caso se per molte persone “jam session” è sinonimo di emozione; ma non solo: anche sorpresa e stupore, come l’estro e l’estemporaneità che non soltanto ne definisce l’essenza, ma ogni singola nota che viene suonata.
Per quanto mi riguarda, quando penso a una jam session la mente vola nel passato e incontra nell’ideale il mito di Elvis; la “jam” del ’56 e, soprattutto, quella live del ’68, con la giacca in pelle nera e la chitarra rossa… impossibile da dimenticare.
Le prime risalgono agli anni ’20 del 1900, dove musicisti bianchi e neri si riunivano dopo i concerti nelle relative “big band” di appartenenza per suonare tutti assieme quelle melodie jazz che esulavano dal repertorio che le grandi orchestre offrivano al pubblico. A queste sono legati i nomi più importanti della musica e, uno fra tutti, Bing Crosby. Sono passati gli anni e le jam session sono poi diventate rock. Il già citato Elvis, ma non solo: Rolling Stones, Santana e procedendo tra nomi più o meno conosciuti spicca quello di una band ancora agli inizi e che il frontman era un giovane musicista di colore. La band si chiamava “The Jimi Hendrix Experience”.
Jimi Hendrix è senza dubbio uno di quei nomi che possiede un legame davvero indissolubile con le jam session, tanto che è riuscito a definire degli standard universalmente riconosciuti e apprezzati.
Questo è il passato, lo so bene, nostalgico e bellissimo come deve essere, e ancora più bello proprio perché irripetibile. Esiste in quella distorsione della realtà dove ogni cosa vive in un riflesso che non conosce fine. Ovviamente, un canale come YouTube rende possibile vivere in parte quel glorioso passato, e nessuno più di me si concede non pochi voli estemporanei in un mondo che, nel mio cuore, esiste ancora in bianco e nero, ma di quando in quando, e mi rendo conto che può sembrare retorico, succede qualcosa di straordinario anche nel presente.
Restiamo fedeli al “campo semantico” della jam session e… beh, che dire, preparatevi a restare stupiti. La musica, la forma d’arte che in senso assoluto è la più capace di condurci indietro nel tempo, ci riporterà tutti a metà anni ’60 a ricordare il compianto Jimi Hendrix grazie a… Leon Hendrix, suo fratello. Ma dal momento che ogni “formazione jam” che si rispetti deve vantare nomi di altrettanto pregio per ogni suo componente, ecco che si aggiunge quello di Giuseppe Gibboni, il violinista (molto di più a dire il vero) che è riuscito nella non facile impresa di riportare il premio Paganini, il concorso per violinisti più prestigioso al mondo, nella nostra Italia nel 2021, dopo ben 24 anni. E pensare che dal 1954, anno di istituzione del premio, solo quattro artisti del Bel Paese sono riusciti a vincere il tanto ambito primo posto.
Hendrix e Gibboni parte di una jam session… ma non è tutto. A chiudere questo trittico d’estro musicale ci pensa il Maestro Sylvia Pagni. Per chi ama la musica è sufficiente leggere “Sylvia”, a volte basta la sola “y”, che già riesce a cogliere ogni riferimento più o meno manifesto. Sylvia Pagni: pianista virtuosa ed eclettica, fisarmonicista di fama internazionale, artista che collabora con Mediaset, che ha suonato anche per il Papa e, concedetemi l’appunto, persona a dir poco stupenda. Proprio Sylvia ci regala nello studio della sua accademia (SLM di Pineto) una jam session che fa sognare.
Pensate idealmente e per un solo istante di unire il suono graffiante della chitarra di Leon Hendrix con il virtuosismo sulle quattro corde di Giuseppe Gibboni e il tocco classico e personale di… niente meno che di Sylvia Pagni.
Ecco, questo è ciò che la musica ha reso possibile. Un incontro di tre grandi artisti che sono riusciti a trascendere il tempo, la melodia e la propria individualità artistica per donare alla musica (e a noi tutti) una visione indimenticabile del “Capriccio n. 24” di Nicolò Paganini, dove il classico e il moderno non soltanto coesistono, ma si elevano vicendevolmente in quello spazio immortale che la bravura e non meno l’amore sostengono.
Ci sarebbero ancora tante cose da dire, forse troppe, ma su una cosa sono certo: perché continuare nel vano tentativo di descrivere l’impossibile quando è sufficiente un ascolto?
Mi pasión, nuestra maravilla
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Nel panorama musicale di oggi, oltremodo eterogeneo, sono ben poche le certezze che accompagnano per mano l’ascoltatore lungo il periglioso cammino che termina con un brivido di emozione. Che sia un sussulto di fugace smarrimento anziché la promessa di un viaggio sempre più estemporaneo, poco importa. La musica, una tra le più significative forme d’arte, ha il dono di coprire distanze che, a una prima parvenza sbiadita di verità, sembrano stanziare in uno spazio e in un tempo a noi lontano, quasi ignoto – e molto spesso pervaso da un insolito alone di mistero. Ciononostante la musica si presta ancora una volta a smentire qualsiasi incertezza esiti tra il cuore e la mente, e lo fa servendosi della bravura eclettica di Sylvia Pagni che, con il progetto discografico mi pasión, da poco approdato anche in veste live, si mostra capace di riscrivere qualsiasi strenuo presupposto si affidi all’individuale concetto di perfezione, a mio avviso raggiunto e superato.
Non è un caso se già dalla prima canzone ci si ritrova a 10.000 km di distanza, più precisamente nella regione di Río de la Plata – tra Buenos Aires e Montevideo – immersi in un’epoca in cui il tango era soltanto un istinto primordiale, un abbraccio asimmetrico tra uomo e donna, un “pensiero triste che si balla”, come sosteneva Enrique S. Discépolo.
Mi pasión riesce a congiungere passato e presente della cultura albiceleste. Spazia dalle sonorità più classiche e fondamentali del tango per poi spogliarle dal velo che la riservatezza del tempo esige e sempre più spesso incoraggia. Il cd si propone come una capsula del tempo, uno scrigno che nel suo involucro di plastica custodisce melodie capaci di approssimare il cielo di ieri alle stelle di oggi, e così il tango nella sua accezione più significativa. Ma è dal vivo che Sylvia Pagni si attesta in tutta la sua multiforme valentia; un’occasione da non perdere per lasciarsi avvolgere dalla stessa “pasión” che nessuno come Sylvia riesce a infondere quando poggia le dita sulla tastiera della sua adorata fisarmonica. Il tango è una sensazione, un pensiero, un brivido… lo stesso entusiasmo che ravvolge il pubblico prima, dopo e durante ogni melodia.
Ancora una volta l’artista abruzzese è riuscita nella non facile impresa di celebrare e al contempo infondere nuove sonorità a quel futile presupposto che da sempre involge la tradizione in un imperativo categorico. Distaccato e sempre più sporadico, ma non per questo irraggiungibile.
Una sfida? No di certo, più semplicemente una dichiarazione d’amore alla musica.
Sylvia Pagni, signore e signori!